I SOLITI PUNTI FERMI - Dopo l'incontro di sabato mattina con i rappresentanti del governo e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Sergio Marchionne ha tenuto oggi un'audizione presso le Commissioni Attività produttive, commercio, turismo e raporti, poste e telecomunicazioni riunite a Montecitorio. Un incontro nel quale l'amministratore delegato del gruppo Fiat, eccezionalmente con vestito e cravatta al posto del solito maglione, ha presentato nuovamente il suo piano industriale e chiarito le dichiarazioni circa la possibilità della fusione tra Fiat e Chrysler (leggi qui la news).
MATRIOMONIO SOLIDO - Tra i tanti punti toccati dal suo lungo discorso, Marchionne ha voluto ribadire che “l'alleanza con Chrysler è determinante anche per il futuro di Fiat: ha dato alla nostra azienda la possibilità di diventare un costruttore di auto completo, integrando una parte fondamentale dell'offerta che la Fiat, da sola, non avrebbe potuto ampliare”. Tra le due aziende, ha insistito Marchionne, “esiste una combinazione ideale”, dato che “la presenza e l'esperienza di Fiat nei segmenti bassi e quelle di Chrysler nei segmenti medi e alti darà al gruppo la possibilità di disporre di una gamma completa”.
SI RESTA A TORINO, FORSE - Un legame, quello tra Fiat e Chrysler, che in futuro potrebbe stringersi ulteriormente e dare vita a una fusione con la nascita di una nuova azienda, negli Usa. Solo un'ipotesi, ha ribadito ancora oggi Marchionne, precisando che “la scelta sulla sede legale non è ancora stata presa. Sarà condizionata da alcuni elementi di fondo”. Il primo è “il grado di accesso ai mercati finanziari, indispensabile per gestire un business che richiede grandi investimenti e ingenti capitali. Il secondo ha a che fare con un ambiente favorevole allo sviluppo del settore manifatturiero e quindi anche con il progetto Fabbrica Italia. Se si realizzeranno le condizioni che sono alla base del nostro piano, il nostro Paese sarà nella posizione di mantenere la sede legale”. Insomma, parole che possono suonare non troppo confortanti, nonostante Marchionne continui a dire che “il cuore della Fiat è e resterà in Italia”. Un unico “cuore”, ma tante teste: “a Torino, per gestire le attività europee; a Detroit, per quelle americane; ma anche in Brasile e, in futuro, una in Asia. Questo è essenziale per un gruppo che opera su base internazionale, perché ci permette di seguire uno sviluppo condiviso, avere attività integrate tra loro ed evitare duplicazioni”.
AUMENTARE LA PRODUZIONE - L'obiettivo di Marchionne per l'Italia resta uno: aumentare la produzione, fino ad arrivare gradualmente nel 2014 a 1.650.000 unità tra autovetture e veicoli commerciali leggeri. Un progetto sicuramente ambizioso, se si considera che nel 2010 sono state prodotte solo 561.000 auto e 190.000 veicoli commerciali, che secondo Marchionne avrà “un impatto positivo sull'export”: entro il 2014, oltre un milione di veicoli saranno destinati all'esportazione, di cui circa 300.000 per il mercato statunitense. Secondo l'amministratore delegato la Fiat raggiungerà nel 2014 un fatturato di 64 miliardi di euro (quasi il doppio dell'anno scorso), che salgono a 100 miliardi se si considera anche la Chrysler.
NO LAVORO DA CINESI - Ovviamente, per raggiungere questi traguardi è fondamentale che si completi il piano Fabbrica Italia. A tal riguardo Marchionne ha annunciato che il 7 marzo prossimo saranno avviate le nuove assunzioni per la newco di Pomigliano d'Arco dove verrà prodotta la nuova generazione della Panda. Uno stabilimento, quello campano, che “così non poteva reggere sul mercato. Le auto prodotte erano meno di 20 mila rispetto ad una capacità di 150 mila vetture all'anno”. Marchionne, parlando degli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori, ha voluto poi sottolineare come “nonostante la cassa mediatica, non c'è alcuna clausola che penalizza i lavoratori. Non abbiamo mai chiesto condizioni di lavoro cinesi, condizioni invece di competitività”. E, anzi, ha annunciato che “se riusciamo a portare l'utilizzo degli impianti dall'attuale 40% all'80%, siamo pronti ad aumentare i salari portandoli ai livelli della Germania e, successivamente, alla partecipazione dei lavoratori agli utili d'azienda”.