L’idrogeno: dalle stelle alle... strade

Tecnologia
01 gennaio 2014

Come alimenteremo i motori del futuro? Tra le varie risposte, l’uso dell’idrogeno è una delle più concrete.

MISSILI E DIRIGIBILI - L’idrogeno è il mattone fondamentale della Creazione: l’elemento di cui sono composte le stelle e le galassie, il numero 1. Letteralmente, perché 1 è il suo numero atomico: il suo atomo si compone di un protone e di un elettrone, la molecola di due atomi. Più “basic” di così non potrebbe essere: un mattoncino, ma con una carica di energia enorme. L’idrogeno, infatti, è il combustibile perfetto perché libera il massimo di energia specifica (cioè per unità di peso), sia nelle reazioni chimiche, sia in quelle nucleari. Nel campo della mobilità umana, l’idrogeno non ha mai conosciuto un impiego massiccio: dopo aver riempito gli involucri dei grandi dirigibili, permettendone il volo, è uscito dalla scena aeronautica dopo la tragica fine dell’Hindenburg, nel 1937. Per rientrarvi molto anni dopo, con l’inizio dell’era dell’esplorazione dello spazio. L’idrogeno è il miglior carburante per i motori a razzo in quanto vanta il più elevato impulso specifico (il più elevato coefficiente di spinta per unità di peso) fra tutti i combustibili chimici, grazie all’altissima velocità d’eiezione dei gas combusti attraverso l’ugello del motore. 
 
Varie applicazioni dell'idrogeno: dai dirigibili degli Anni 30 ai razzi degli Anni 60.
 
MA IL MOTORE, NO… - Al contrario, un tipo di propulsore che non deve essere alimentato a idrogeno è proprio il motore alternativo a ciclo Otto: quello delle nostre auto. Il tenore ottanico dell’idrogeno, infatti, non raggiunge neppure quota 80: più o meno, quello di una benzina normale del primissimo dopoguerra. Ciononostante, i tentativi d’applicazione dell’idrogeno all’autotrazione non sono mancati. Negli anni 50 un ricercatore italiano, l’ingegner Rocco, condusse una serie di esperimenti sull’alimentazione a idrogeno gassoso di motori automobilistici: tentativi che, però, finirono nel nulla. Probabilmente, all’epoca, dell’idrogeno si conoscevano gli elevatissimi contenuti energetici, ma non la povertà ottanica; l’ingegner Rocco, poi, aveva scelto per i suoi esperimenti il motore Alfa Romeo Giulietta 1300, particolarmente incline a innescare fenomeni di detonazione e assolutamente bisognoso di carburante ad alto tenore ottanico per poter sopravvivere questa nefasta tendenza. Il tecnico italiano, in realtà, non è stato il solo a percorrere (senza successo) questa via: molti anni dopo, molte ere tecnologiche più avanti e molti miliardi di investimenti oltre, anche un colosso come la BMW avrebbe dovuto arrendersi all’evidenza di un problema che non può avere soluzione, perché il tenore ottanico di un carburante non può essere alterato. 
 
La BMW ha investito anni di ricerca e miliardi di euro per vagliare l'impiego dell'idrogeno nei motori a scoppio, abbandonando poi il progetto.
 
LA SOLUZIONE È NELLE FUEL CELL - Capitolo chiuso, quindi, quello dell’impiego dell’idrogeno nel settore dell’autotrazione? Niente affatto: l’industria automobilistica ha già pronta la soluzione, l’ha già sperimentata e portata a un buon livello di efficienza e di compatibilità con le esigenze dell’auto. La soluzione si chiama “fuel cell”, cioè “pila a combustibile”: un dispositivo in cui l’ossidazione fredda dell’idrogeno genera un intenso flusso di corrente elettrica in grado di alimentare sistemi di propulsione elettrica anche di elevate prestazioni. Le pile a combustibile sono nate dalla ricerca dell’industria spaziale USA, che aveva richiesto una fonte di energia compatta e affidabile da impiegare sui satelliti da ricognizione e, quindi, su una varietà di mezzi militari, dagli aerei ai carri armati. Il risultato fu un “apparato di conversione elettrolitica dell’energia”, cioè dell’energia chimica generata dalla combinazione di ossigeno e idrogeno che si trasformano in acqua rilasciando energia elettrica. Ci sono vari tipi di fuel cell, ma quelle che ci interessano come automobilisti sono quelle dette “a membrana polimerica di scambio”. Possono essere adeguatamente compatte, hanno un elevato rendimento e, soprattutto, operano a temperature che non eccedono gli 80°C, quindi agevolmente gestibili anche dal punto di vista della sicurezza. Il cuore di questo tipo di fuel cell è costituito da quattro componenti: un catodo, un catalizzatore, una membrana di scambio protonico e un anodo, riuniti in questa sequenza in una piastra multistrato. L’anodo, elemento a carica negativa, provvede a disperdere l’idrogeno su tutta la superficie della membrana di scambio protonico, che è l’elettrolita del complesso. Inoltre, l’anodo raccoglie gli elettroni liberati dalle molecole di idrogeno durante l’ossidazione e li rende disponibili per il circuito elettrico. Il catodo, elemento a carica positiva, ha costruzione analoga a quella dell’anodo e ha il compito di disperdere l’ossigeno sulla superficie del catalizzatore, costituito da uno strato di materiale poroso su cui sono state inserite nanoparticelle di platino, che costituiscono il catalizzatore vero e proprio. Fra l’anodo apportatore di idrogeno, da un lato, e il catodo, apportatore di ossigeno, con il relativo catalizzatore, è inserita la membrana di scambio protonico che ha la capacità di condurre solo gli ioni positivi, bloccando conseguentemente gli elettroni. Sia l’idrogeno che l’ossigeno vengono forzati attraverso lo strato catalizzante da una leggera sovrappressione. Quando la molecola di idrogeno viene in contatto con il platino, si divide in due ioni positivi H+ liberando due elettroni, mentre la molecola di ossigeno a contatto con il platino si divide in due atomi di O2. Ciascuno di questi atomi ha forte carica negativa e quindi attrae i due ioni di H+ attraverso la membrana di scambio protonico, dove si combinano generando acqua e una carica elettrica. Attraverso questo processo, ogni fuel cell produce una carica pari a 0,7 Volt; ogni “pacchetto” di fuel cell è strutturato in un complesso a nido d’ape. La fuel cell arriva a un rendimento anche superiore a 80 per cento quando è alimentata con idrogeno: si sono sperimentate anche fuel cell alimentate con etanolo o altri idrocarburi, ma in questo caso è necessario ricorrere ad un convertitore che ne estragga l’idrogeno, dando vita ad un apparato più complesso e il cui rendimento scade a valori appena accettabili. 
 

Il principio di funzionamento della pila a combustibile.
 

Ecco come appare una fuel cell per uso automobilistico.
 
OLTRE LE FUEL CELL - Questo è il principio base di funzionamento della fuel cell, ma l’industria è ancora impegnata nell’ottimizzazione di ogni singolo componente, sia come materiale, sia come architettura e processo di gestione. Lo scopo di questo ulteriore sforzo è di arrivare alla definizione di fuel cell sempre più compatte e leggere, quindi con livelli di efficienza ancora superiori. AlVolante ha avuto modo di provare su strada alcuni prototipi di vetture a propulsione elettrica alimentata da fuel cell e l’impressione è sempre stata molto positiva. Tutto questo, però, si scontra col fatto che continuiamo a non disporre di alcuna fonte di idrogeno in abbondanza e a prezzo competitivo con quello dei carburanti a base petrolifera. Sulla Terra, l’idrogeno non è presente nel suo stato elementare, ma è sempre in combinazione con altri elementi: il carbonio, con cui forma gli idrocarburi, l’azoto, con cui forma l’ammoniaca, e l’ossigeno, con cui forma l’acqua. Il nostro pianeta è coperto di acqua per nove decimi, ma la molecola dell’acqua è una delle più stabili in natura per cui, per scinderla in ossigeno ed idrogeno, occorre una quantità di energia superiore a quella che si otterrebbe ricomponendo i due elementi nella combustione. 
 

Una Hyundai ix35 con pila a combustibile, alimentata a idrogeno, che genera l'energia necessaria ad un motore elettrico. Leggi qui le nostre impressioni di guida.
 
L’OPZIONE NUCLEARE - Per la verità, esistono anche altri metodi che consentirebbero di estrarre idrogeno dall’acqua in quantitativi e a costi competitivi con quelli dei derivati del petrolio: ma passano tutti attraverso il ricorso al nucleare, un argomento che è diventato… politically incorrect. Nelle centrali elettro-nucleari, l’idrogeno sarebbe un by-product (una sorta di “prodotto collaterale”), a costo quasi zero, della produzione di energia elettrica: l’idrogeno potrebbe essere estratto operando sul flusso di vapore acqueo ad altissima temperatura che, creato dal reattore, attiva le turbine dei generatori di corrente elettrica. Nei reattori di seconda e terza generazione, quelli attualmente in uso, il vapore raggiunge temperature nell’ordine dei 700°-800°C, alle quali anche la pur stabilissima molecola dell’acqua comincia… ad accusare un certo mal di testa. Trattando il flusso in una camera di reazione in cui viene immesso un catalizzatore chimico, alla fine del ciclo si ottengono idrogeno, ossigeno e si recupera il catalizzatore stesso. Un ciclo, come si vede, chiuso ed esente da scarti. Il vapore che va alle turbine dei generatori non viene mai in contatto con il “cuore” del reattore  e quindi non può incorrere in contaminazioni radioattive, in quanto portato a temperatura operativa in uno scambiatore di calore alimentato dal circuito di raffreddamento del reattore, rigorosamente sigillato. Il vapore da cui verrebbe ottenuto l’idrogeno è lo stesso che attualmente viene raffreddato in quegli enormi coni rovesciati (le torri di raffreddamento) che caratterizzano la struttura delle centrali elettro-nucleari. I veri problemi inizierebbero, piuttosto, alla conclusione di questo ciclo. Abbiamo già visto che, allo stato gassoso, l’idrogeno ha una densità molto bassa, e quindi, per garantire sia solide prestazioni, sia adeguata autonomia, dovrebbe essere immagazzinato in serbatoi a pressione “caricati” ad almeno 600 bar. L’alternativa è di incrementarne al massimo la densità, portandolo allo stato liquido, ma la temperatura relativa è estremamente bassa (-254°C) e richiederebbe il ricorso a tecnologie criogeniche molto avanzate. L’industria aerospaziale ha già positivamente affrontato questa sfida. Il problema, eventualmente, sarebbe di applicare tali tecnologie al trattamento degli enormi quantitativi di idrogeno necessari per rispondere alla domanda di un futuribile parco circolante di vetture a propulsione elettrica, necessariamente alimentate a fuel cell perché, al momento, questa è l’unica soluzione che può aprire realistiche prospettive per il passaggio dell’utenza generale alla propulsione elettrica in autotrazione. E l’idrogeno è la strada obbligata per la fuel cell. 
 

Un impianto di produzione dell'idrogeno.


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Ritratto di Gianni Travaglia
5 gennaio 2014 - 11:44
Piccolo problemino non trattato. Lo scambio per osmosi richiede idrogeno purissimo. Il trasporto di gas, qualsiasi, richiede per ragioni di sicurezza che questo venga marcato da odore e colore, cioè "sporcato". Questa marchiatura intaserebbe la membrana osmotica della cella a combustibile che nel giro di poco tempo smetterebbe di funzionare. Come si è affrontato questo problema visto che nell'articolo non c'è menzione?
Ritratto di miciolino
6 gennaio 2014 - 19:06
anche se l'idea è bella penso che pochissimi si farebbero bucare le auto per fare il serbatoio(come nella foto la BMW serie 7) io non bucherei mai la mia Lexus
Ritratto di Gino2010
8 gennaio 2014 - 15:42
semplicissima:costi eccessivi ed enormi difficoltà tecniche di stoccaggio e distribuzione.Nell'articolo ci si occupa solo della produzione dello stesso.Ma un carburante non deve essere solo prodotto ma anche venduto.L'idrogeno deve stare a temperature bassissime,e quando dico bassissime parlo di quelle che si riescono a raggiungere al MIT di Boston o nei laboratori del gran sasso ed in pochi altri posti al mondo,ed elevate pressioni,per "ficcarlo" dentro un serbatoio.Ogni distributore di idrogeno dovrebbe avere serbatoi interrati con rivestimenti multipli e quando arriva l'estate anche macchine frigorifere per non superare la temperatura critica.Potenti compressori,sensori sensibili e benzinai con dottorato di ricerca per fare un pieno.Nei nostri distributori vedo gente che fuma,compresi i benzinai,gente che arriva col motore acceso e lo mantiene acceso durante la fornitura,gente che usa il cellulare ecc.Già col metano fare questo è folle ma con l'idrogeno sarebbe un'emergenza all'ora.Poi per farlo arrivare al distributore quegli stessi rivestimenti multipli dovrebbero coinvolgere anche i camion che lo trasportano.In pratica sarebbe necessario fare una rete tubolare come per il gas.Per recuperare tali costi (compresi quelli di tipo assicurativo),l'idrogeno dovrebbe costare più dello champagne.Ecco perchè chi ha provato ad usare l'idrogeno ha dovuto abbandonare questa strada.Il vero futuro è l'ibrido su base metano.To be continued

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