IL CUORE È TUTTO NUOVO - La
Ford Mustang non è mai stata così cattiva e performante: al compimento del cinquantesimo compleanno, la grossa coupé della Ford si è tolta gli abiti borghesi per mostrare una muscolatura possente da supereroe. Già le versioni di grande serie vantano prestazioni estremamente elevate: non solo in termini motoristici, ma anche di dinamica di guida, di agilità, di precisione di sterzo, di stabilità e di sicurezza. Ma la nuova
Ford Shelby GT350 (
foto sopra, disponibile, per il momento, solo negli Usa) va oltre. Il cuore del progetto è un motore come nessuno si aspettava di veder prodotto in serie da un grande costruttore generalista come la Ford: un V8 di 5,2 litri che eroga una potenza massima di 533 CV a 7.500 giri, con una coppia massima di ben 582 Nm a 4.750 giri, cioè una potenza specifica di 103,4 Hp/litro e a una coppia specifica di ben 112 Nm/litro. E questi, secondo le rigorose nome SAE Net, sono valori minimi garantiti dal motore alimentato con benzina Super o Super-Premium con valore ottanico di 91-93 Ron, secondo lo standard Usa, invece che con le nostre benzine Super-Premium da 98-100 Ron.
ALTA EFFICIENZA TERMODINAMICA - Il nuovo Ford 5.2 V8 (foto qui sopra) della Ford Shelby GT350 nasce dalla base del noto 5.0: blocco e teste sono in lega di alluminio e la maggiorazione di cilindrata è stata ottenuta incrementando l’alesaggio a 94 mm (da 92,2) e la corsa a 93 mm (da 92,7), evolvendosi così da leggermente sottoquadro a leggermente superquadro. Come si può intuire, il blocco era già stato dimensionato al limite per gli originali 5.0 litri: per “tirare” quegli 1,8 mm di alesaggio in più, senza indebolire la struttura del blocco, i tecnici della Ford hanno eliminato le canne dei cilindri in ghisa e applicano sulle pareti dei cilindri stessi un trattamento indurente al plasma, tipo Nikasil. Ne consegue che il 5,2 litri è più leggero dello stesso 5.0 da cui è derivato. Le teste hanno condotti di aspirazione che, partendo dal grosso collettore centrale con la valvola a farfalla di 87 millimetri, descrivono un ampio arco per scendere poi sulle rispettive valvole con andamento quasi rettilineo, in modo da ottenere sia la massima velocità dell’aria in ingresso al cilindro, sia una forte turbolenza “tumble” nella carica aspirata per garantirne perfetta combustione anche ai regimi più elevati (8.250 giri a “linea rossa”). La distribuzione è, ovviamente, a doppio albero a camme in testa con punterie idrauliche a perno e bilancieri “a dito”, con i rulli al contatto con i lobi delle camme. La valvole sono poste a un angolo incluso molto contenuto per ottenere una camera di combustione estremamente compatta che realizza un rapporto di compressione di 12:1 con pistone a cielo quasi perfettamente piatto, a ulteriore garanzia di un’efficienza termodinamica molto elevata. Sorprendentemente, l’alimentazione è a iniezione indiretta, cioè con iniettori nei condotti di aspirazione, mentre oggi la gran parte dei motori Ford di elevate prestazioni è alimentata ad iniezione diretta (come pure la versione dello stesso 5.0 V8 che la Ford produce per la Jaguar-Land Rover). Un motore “allo stato dell’arte” per la sue soluzioni impeccabili sotto ogni aspetto, ingegneristico e tecnologico, e capace di associare una cilindrata rilevante a regimi di rotazione decisamente elevati: 7500 giri quello di potenza massima, 8250 giri quello al limite di linea rossa.
IL SEGRETO È NELL’ALBERO - In parte questa notevole disponibilità a ruotare alto può essere fatta risalire alla vera novità di questo 5.2 (foto qui sopra): che, al contrario di tutti i V8 americani, utilizza un albero motore con manovelle disposte in opposizione a 180°, come quelle dell’albero di un quattro cilindri in linea, invece che a 90° come di norma per un otto cilindri a V di 90°. Norma dettata dalle fondamentali regole della fisica, per cui un 8 cilindri a V di 90° è perfettamente equilibrato, in primo e secondo ordine, solo se i suoi organi alterni (bielle e pistoni) sono vincolati a un albero motore con manovelle a loro volta a 90°. Perché, allora, i tecnici della Ford hanno preferito adottare un’architettura di albero motore che consente un completo equilibramento di coppie e forze in prim’ordine, ma non equilibra le ingenti forze libere di secondo ordine che generano vibrazioni ad alta frequenza molto sgradevoli? Perché questo svantaggio è compensato dalla possibilità di “accordare” in modo ottimale le onde di pressione, quelle all’aspirazione e quelle allo scarico, ottenendo una più elevata efficienza volumetrica pur utilizzando un collettore di scarico di disegno molto più semplice rispetto a quello necessario per ottenere lo stesso risultato con un V8 con albero motore con le manovelle a 90°.
ILLUSTRI PRECEDENTI - Ufficialmente, il primo a trarre vantaggio da questa condizione fu il grande ingegnere britannico Keith Duckworth, il padre del V8 Ford-Cosworth DFV 3.0 litri, il propulsore più vincente in tutta la storia della Formula 1. Duckworth scelse di sviluppare il suo mitico DFV attorno all’insolito concetto dell’albero motore piatto su suggerimento di Mike Costin, suo socio alla Cosworth in qualità di specialista degli autotelai. Costin era uomo pratico e voleva disporre di un un propulsore che consentisse di realizzare un abbinamento quanto più lineare possibile con l’autotelaio che lo avrebbe ospitato: e Costin aveva ben analizzato la complessità e l’ingombro dei collettori di scarico di tutta una generazione di V8 Ford per le monoposto Lotus destinate alla 500 Miglia di Indianapolis e per la sport GT40. Nel primo caso il V8, ovviamente con manovelle a 90° e in cilindrata 4.2 litri come da regolamento Indy, era montato su un telaio Lotus 29, ovviamente a motore posteriore. Per accordare al meglio aspirazione e scarico, e quindi massimizzare l’efficienza volumetrica del motore alimentato da quattro carburatori doppio corpo Weber verticali, i tecnici Ford realizzarono un collettore di scarico che incrociava alcuni dei rami di una bancata con quelli dell’altra in una contorsione di tubi che gli americani chiamarono subito “forchettata di spaghetti”. Il sistema funzionava (la Lotus-Ford 29 si piazzò seconda e settima alla 500 Miglia del ’63), e il rumore allo scarico era quasi un sibilo, ma l’ingombro era esagerato.
UNA STORIA VINCENTE - Per l’anno successivo la Ford sviluppò una propulsore specifico per Indy, con distribuzione bialbero (invece che ad aste e bilancieri, come il precedente) e induzione a 4 valvole per cilindro; ma, per minimizzare e razionalizzare l’ingombro del collettore di scarico a rami incrociati, collocarono i condotti di aspirazione al centro della testa, fra i due assi a camme, con il collettore di scarico sempre a “forchettata di spaghetti”, ma relativamente più compatto e al centro di V dei cilindri. Il risultato fu che le nuove Lotus 34 (Indy 1964, ritirate) e 38 (Indy 1965, prima con Jim Clark, e 1966, seconda) avevano un aspetto più nitido e una sezione posteriore molto più contenuta. Ma il motore non era un fenomeno di potenza a causa dell’eccessivo angolo incluso delle valvole (per fare posto ai condotti di aspirazione fra le camme) e del conseguente profilo a cuspide della camera di combustione, all’origine di una modesta efficienza termodinamica. Invece, le camere di combustione del Ford-Cosworth DFV erano un esempio di efficienza, la nuova frontiera della termodinamica del motore a ciclo Otto. Keith Duckworth aveva tenuto conto dei suggerimenti di Mike Costin e aggirato il problema trattando il DFV come una coppia di 4 cilindri in linea, operanti su un comune albero motore piatto e dotati di un semplice collettore di scarico 4-in-1 ciascuno, che assicurava un ottimo rendimento volumetrico, senza complicazioni. I problemi derivanti dagli squilibri di secondo ordine conseguenti alla architettura a 180° dell’albero a gomiti non si manifestarono sulle vetture di F1 dotate del V8 Ford Cosworth 3.0 litri, ma vennero fuori in modo vistoso quando la Cosworth ne derivò la versione DFL, con cilindrata maggiorata a 3,3 e anche a 4 litri, per l’impiego nelle competizioni di durata. Data la compattezza del DFV 3 litri da cui era derivato, il DFL realizzava l’incremento di cilindrata soprattutto maggiorando la corsa e, sempre per ragioni di ingombro, accorciando di conseguenza le bielle. Il DFL vinse a Le Mans solo nel 1980, con la Rondeau e solo nella versione di 3,3 litri, ottenuta con la sola maggiorazione dell’alesaggio. Maggiorando ulteriormente la corsa e accorciando le bielle, nella versione da 4 litri furono vistosamente incrementati gli squilibri di secondo ordine, direttamente correlati al rapporto fra il valore della corsa e la lunghezza della biella: non solo il motore mostrò limiti di affidabilità, ma la frequenza delle vibrazioni che generava causava gravi disturbi al piloti durante le fasi a pieno regime, come sul lungo rettilineo di Mulsanne.
POTENTE, MA “SOFT” - Sulla nuova Ford Mustang Shelby 350GT (foto qui sopra), l’isolamento del motore è stato un tema affrontato con massimo impegno, e con successo. Nel poderoso 5.2 V8 è stata maggiorata al massimo possibile la lunghezza delle bielle e, montando il motore su supporti elastici speciali, di tipo attivo, e coibentando al meglio il vano motore per ridurre la diffusione delle risonanze, il stato possibile riconfermare anche questa versione hi-performance della nuova Mustang come una perfetta GT dal comfort ottimale, oltre che dalle prestazioni fulminanti. C’era da dubitarne?