50ENNE - Nel 2022 l’Alfetta, tra le Alfa Romeo più apprezzate dagli appassionati per le sue straordinarie doti di tenuta di strada e l’esuberanza dei suoi potenti motori, taglia di slancio il traguardo del suo primo mezzo secolo di vita. Quale modo migliore, per scoprire gli aspetti meno noti di una vettura di cui moltissimo si è detto e scritto, di “infilarsi” nella tana del Biscione per ascoltare i racconti di chi, a quell’incredibile progetto, ha contribuito in prima persona? Ieri, domenica 5 giugno, abbiamo deciso di unirci alla festa di compleanno della berlina milanese, che il Museo Storico Alfa Romeo di Arese ha organizzato chiamando a raccolta i proprietari della vettura (in rappresentanza di pressoché tutti i modelli costruiti tra il 1972 e il 1984) e dedicando all’Alfetta una bella conferenza d’approfondimento. Ecco quello che (forse) ancora non sapevate sulla rivoluzionaria berlina del Biscione.
UN NOME E UN PROGETTO CHE VENGONO DA LONTANO - Partiamo dal nome, sul quale i più esperti in materia saranno sicuramente preparati. Alfetta, a mo’ di vezzeggiativo e con un’enorme dose d’affetto, vennero ribattezzate dai meccanici dell’Alfa Romeo le mitiche GP Tipo 158 e 159 con cui la casa milanese conquistò i primi due Campionati mondiali di Formula 1, nel 1950 e 1951. Tra le monoposto iridate e la berlina sportiva che, poco più di vent’anni dopo, ne eredita il soprannome, i punti di contatto però non si fermano qui. Per l’erede delle berline della precedente Serie 105 (Giulia, 1750 e 2000), l’esperienza vincente nei gran premi suggerisce infatti ai progettisti di “rispolverare” l’impostazione transaxle (motore anteriore; frizione, cambio, differenziale e freni raggruppati in un unico blocco al posteriore) dei bolidi da corsa, e in particolare, per quel riguarda il ponte De Dion, della 159. Il più grande vantaggio di questa soluzione consiste nell’avere il differenziale collegato direttamente alla scocca e non, come avviene in altri sistemi più tradizionali, per esempio il ponte rigido, a ridosso del ponte stesso. Ciò si traduce in una sensibile riduzione delle masse non sospese e degli scuotimenti delle ruote, il che, grazie anche a una perfetta distribuzione dei pesi tra i due assali, migliora la motricità e la tenuta di strada, richiedendo al guidatore meno correzioni sullo sterzo.
LA PRIMA CON I FINESTRINI CURVI - Alla fine degli anni ’60, quand’era in corso d’opera il progetto della carrozzeria dell’Alfetta, per motivi di costi l’Alfa Romeo preferiva non utilizzare la galleria del vento. “L’efficienza aerodinamica la valutavamo tappezzando la scocca con tantissimi fili di lana - rivela Giancarlo Annoni, all’epoca in forze al reparto progettazione della casa milanese -. Le macchine giravano in pista e noi le fotografavamo un po’ a tutte le velocità, per vedere se i fili svolazzavano oppure rimanevano abbastanza aderenti alle superfici”. Un metodo tanto rudimentale quanto efficace che, sottolinea Annoni, “ci consentì, dopo molti esperimenti, di definire un profilo di coda in grado di ridurre piuttosto bene i risucchi d’aria”. Ad Annoni si deve anche la soluzione dei vetri curvi laterali, tra i primati meno conosciuti dell’Alfetta: “L’idea venne a Satta (Orazio Satta, responsabile della progettazione di tutte le vetture del Biscione dal secondo dopoguerra fino all’Alfetta, ndr): ci spiegò che i finestrini dritti, ai lati, rubavano spazio ai passeggeri”.
“STROZZATURE” AMERICANE - La messa a punto dei motori a benzina dell’Alfetta, i leggendari quattro cilindri di 1,6, 1,8 e 2 litri e distribuzione a doppio albero a camme in testa, non richiese particolari sforzi ai progettisti. “Erano motori derivati dalle Giulia e dalle 1750 e 2000 berlina. Nel mio gruppo - ricorda l’ingegner Giorgio Figliozzi, tra i “papà” del CEM, un innovativo sistema di iniziazione elettronica brevettato dall’Alfa Romeo alla fine degli anni ’70 (qui per saperne di più) - ci occupavamo, in particolare, delle Alfetta destinate agli Stati Uniti, dove già all’epoca le normative sulle emissioni inquinanti erano molto severe. Si inasprivano di anno in anno, costringendoci tutte le volte a rivedere il piano di carburazione dei motori. Ricordo che in America già nel biennio 1970-71 per rientrare nei limiti delle prove anti-smog fummo costretti a passare all’iniezione meccanica per la 1750. Dal 1976, invece, divenne obbligatoria la marmitta catalitica. Il risultato è che, oltreoceano, arrivavano macchine decisamente meno pimpanti delle nostre. Ma, in fin dei conti, non credo che agli americani importasse più di tanto”.
IL FURGONCINO DEL PESCE FRESCO - La proverbiale brillantezza di guida dell’Alfetta, nonché il piacere unico che si prova nel guidarla, derivano dal duro e appassionato lavoro dei collaudatori dell’Alfa Romeo, un team di validissimi professionisti che sulle piste del Centro Prove di Balocco ha macinato milioni e milioni di chilometri. “L’Alfetta non fu affatto un progetto facile - racconta l’ex collaudatore Sebastiano Caprì -: era un’auto derivata dalle corse, perciò costosa e complicata nella messa a punto. La soluzione del cambio al retrotreno, in particolare, all’inizio non fu certo scevra di problemi. Una volta, sul passo della Cisa, ruppi il centraggio del differenziale e da lì capimmo che avremmo dovuto farlo flessibile, e non rigido”. Ma l’aneddoto più divertente riporta la mente a una giornata di prove in alta quota: “Coi muletti facevamo tutte le strade, avanti e indietro, tra Milano, Torino e Aosta, e i paparazzi in cerca di uno scoop erano sempre in agguato. Un giorno, me lo ricordo come fosse oggi, dopo una tirata a 200 all’ora mi fermai a prendere un caffè a Chatillon, in Valle d’Aosta. Un signore francese, incuriosito da quella che sotto sotto era un’Alfetta, ma aveva ancora le sembianze di un furgoncino, mi domandò se trasportassi materiale deperibile, per andare così di fretta. Lì per lì non sapevo cosa rispondergli, poi lo guardai e gli dissi di sì. Portavo tutti i giorni il pesce fresco al ristorante, per quello correvo così veloce”. Che storia straordinaria, l’Alfetta…