POLITICA? NO GRAZIE - Rompendo una tradizione trentennale, quest’anno le Convention per la nomina dei candidati alle elezioni presidenziali americane non hanno avuto a disposizione auto di servizio fornite dalla General Motors, che negli passati ne metteva a disposizione a centinaia. Non solo: la GM e la Chrysler hanno comunicato formalmente che non metteranno a disposizione alcun loro sito aziendale per la campagna elettorale dei due candidati Obama (nella foto in alto durante una visita ad una fabbrica della Jeep) e Romney. In pratica c’è stato un rifiuto preventivo a eventuali richieste di spazi (e di attenzione). “Tutte le nostre energie sono impiegate nel cercare di vendere auto e non nella politica” è stata la motivazione fornita alla presa di posizione.
MA L’AUTO È PROTAGONISTA - Eppure, nonostante questa sorta di fuga, l’automobile è uno dei temi maggiormente sotto la luce dei riflettori nel dibattito-scontro elettorale tra il democratico Barack Obama e il repubblicano Mitt Romney (foto sotto). I motivi possono essere tanti ma il più significativo sono le valutazione date sull’operazione di salvataggio compiuta nel 2008 dall’amministrazione Obama per evitare il fallimento della General Motors e della Chrysler.
I COSTI PUBBLICI DEL SALVATAGGIO - Allora la Ford non ricorse agli aiuti governativi, ma GM e Chrysler beneficiarono di ingenti finanziamenti, stimati in circa 80 miliardi di dollari (64 miliardi di euro). Si calcola che tutta la manovra sia costata circa 25 miliardi di dollari (poco meno di 20 miliardi di euro) alle casse dello Stato. Proprio questo costo è sollevato dal partito repubblicano e dai suoi candidati alla Casa Bianca come testimonianza di una politica interventista dello Stato nelle questioni economiche, che invece i repubblicani rifiutano e considerano sbagliata e negativa.
LAVORO SALVAGUARDATO - Sul versante opposto, i democratici fanno del salvataggio della GM e della Chrysler uno dei fiori all’occhiello della presidenza Obama. Per farlo sciorinano una serie di dati: un milione e mezzo i posti di lavoro salvati tra le case GM e Chrysler e indotto; 150 mila nel solo Michigan, stato dell’avversario Romney - sottolinea con un pizzico di perfidia l’entourage di Obama; 167 mila i previsti nuovi posti di lavoro entro il 2015; uno su 25 i lavoratori americani facenti capo al settore auto.
AIUTI O FALLIMENTO? - Tutte cose che vengono citate come valide ragioni per giustificare gli interventi del 2008 e 2009. Interventi che hanno portato alla rinascita delle case americane che proprio in questi mesi importanti aumenti nelle vendite, confermando una ripresa che in molti avevano considerato impossibile. Un tale recupero - secondo i democratici - non ci sarebbe stato se si fossero applicati alle due case automobilistiche i principi sostenuti da Romney, secondo cui le aziende devono vivere sulle proprie gambe. Una alternativa che secondo il presidente Obama avrebbe significato il fallimento delle due aziende.
I COSTI DEL SALVATAGGIO - Dall’altra sponda Romney riesce a far presa citando i 25 miliardi di dollari che tutta l’operazione è costata ai contribuenti americani. In buona parte questa perdita è riconducibile alle forti perdite del titolo azionario della GM, mentre per quanto riguarda la Chrysler, avendo essa già restituito il prestito che aveva ricevuto, le perdite governative sono molto inferiori, attorno a 1,8 miliardi di dollari. Resta il fatto che il “miracolo” della resurrezione di GM e Chrysler non può non essere considerato frutto dei pesanti interventi finanziari del governo più che delle strategie di gestione e produttive.
FILOSOFIE DIVERSE - È dunque certo che, nonostante gli “smarcamenti” delle case automobilistiche e al di là delle cifre e delle vicende singole, l’automobile è terreno di scontro molto importante. Questo perché riesce a semplificare un quadro di per sé complesso ed esemplificare la divergenza tre due visioni dell’economia: quella di Romney tutta basata sulle capacità di ognuno, aziende comprese, di andare avanti senza bisogno di aiuti esterni, e quella di Obama che invece ritiene che la mano pubblica debba intervenire quando c’è il pericolo di crolli incontrollabili che possono generare lunghe e totalizzanti crisi.