ANTESIGNANO - Se la storia dell'automobilismo è fatta di motori d'eccezione - quelli che raggiungono l'eccellenza con scelte architetturali e progettuali che esaltano l'ingegno umano - vi sono esempi di onesti lavoratori che ancora oggi, in barba al tempo, costituiscono il cuore pulsante di milioni di veicoli. Il
Fire (Fully Integrated Robotized Engine) della
Fiat, è esempio calzante: giusto trent'anni fa, l'avvocato Agnelli e l'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini inaugurarono la terza ala dello stabilimento Fiat di Termoli, destinato alla produzione di un'unità di un litro esatto (999 cm3 da scheda tecnica) la cui eredità è ancora ben salda sotto il cofano di parecchie FCA di oggi.
BEL VESTITO - Doveva nascere assieme alla joint venture in atto con la PSA, il Fire, ma fu sviluppato dalla sola Fiat: il gruppo francese non se la passava granché bene, e quindi tutto il lavoro gravò sulle spalle del team torinese capitanato da Stefano Iacoponi. Voci mai confermate parlano di prototipi in grado (ed è meglio ricordare che si è negli anni Ottanta) di un aspirato in grado di sviluppare un'ottantina di cavalli per litro; il risultato pratico scende a 45, privilegiando alcuni capisaldi progettuali - semplicità costruttiva, efficienza ed economia nella manutenzione. Oltre a una certa veste estetica, visto che il design viene commissionato al milanese Rodolfo Bonetto, che in carriera di aggiudica qualcosa come otto Compassi d'Oro.
NON ROMPE - Il primo modello su cui debutta il Fire è l'Autobianchi Y10: prassi Fiat è quella di utilizzare il marchio di Desio per la sperimentazione commerciale di soluzioni inedite - a partire dalla trazione anteriore della Primula del 1964. Rispetto al serie 100 che traeva origine da un progetto degli anni Cinquanta (e che avrebbe comunque proseguito la carriera fino al 2000, record di longevità da non sottovalutare), il Fire aveva un rapporto stechiometrico elevato potendosi definire a combustione magra e distribuzione comandata da cinghia anziché catena. Proprio quest'ultima costituiva elemento d'interesse: il massimo valore d'apertura delle valvole era inferiore alla distanza tra il punto morto superiore e la camera di combustione, con il risultato che - in caso di rottura della cinghia - si rimaneva sì a piedi, ma senza danni strutturali alla testata, ai pistoni e alle valvole. Lo spinterogeno era calettato sull'asse a camme posto in testa, così da potere eliminare eventuali rinvii: per l'assemblaggio di un Fire da 999 cm3 occorrevano due ore, la metà del 903 cm3 ad aste e bilancieri. Da non tralasciare neppure l'albero motore su cinque supporti di banco (al posto dei tre del 903 cm³), a tutto vantaggio dell'affidabilità e dell'efficienza di funzionamento del motore.
COME ERODE - Approdato rapidamente sulla Uno, cavallo di battaglia Fiat, ben presto il Fire è stato esteso verso il basso (con un 769 cm3 per la Panda) e l'alto, con un 1.108 cm3 alimentato a iniezione elettronica single-point (Bosch o Marelli, a seconda dell'elettronica installata) per Punto, Y10 e buona parte della produzione utilitaria della Fiat - ma anche, con il carburatore, per la Tipo. Il 1.242 cm3 è stato a lungo utilizzato con testa a due valvole per cilindro (e tale è arrivato al giorno d'oggi su 500, passando per varie modifiche dovute alle normative antinquinamento) e a quattro (con doppio albero a cammes in testa e iniezione multi-point, alimentazione comune al “due valvole”); il 1.368 cm3 - massima cilindrata attualmente raggiunta per un Fire - nel tempo è stato equipaggiato con testa a 8 o 16 valvole, aggiornato con il sofisticato controllo dell'apertura delle stesse chiamato Multiair e dotato di turbocompressore per le Punto e le 500 vestite Abarth. Un inno alla versatilità di un motore che spegne le prime 30 candeline nel nome della razionalità e di risorse difficilmente pensabili - tali da soffocare nella culla il bicilindrico TwinAir che, inizialmente, avrebbe dovuto essere l'erede naturale dei Fire più piccoli.