UNA GALASSIA DI AZIENDE - L’Italia è uno dei paesi che produce di più nel settore della componentistica per i veicoli. Un settore nel quale troviamo marchi conosciuti e con presenza globale, come Brembo, Pirelli e Marelli, ma anche una miriade di piccole e medie aziende, i cui nomi sono sconosciuti ai più, come SAPA (componenti plastici), VHIT (componenti elettronici), Metelli (componenti vari) e Silatech (qui per saperne di più).
VEDIAMOCI CHIARO - Le imprese che costruiscono componenti in Italia sono tantissime: uno studio di ANFIA e dalla Camera di Commercio di Torino nell’edizione 2022 quantifica in circa 2.200 le imprese con sede legale in Italia, escludendo i grandi assemblatori finali. Questo numero considera solo le società di capitali, per le quali è possibile consultare i bilanci al fine di valutarne il peso economico. La maggior parte di esse è nel Nord Ovest (62%) e nel Nord Est (21%); il Sud, isole comprese, conta il 9% del totale mentre il Centro Italia incide per l’8%. Com’è facile pensare il Piemonte ha il primato regionale (33,3% delle imprese censite), seguito da Lombardia (27%), Emilia-Romagna (10,4%) e Veneto (8,8%). Le altre regioni sono molto distaccate, con la Campania al 3,6%, Toscana e Abruzzo al 3% e le altre sotto il 2,5%. È interessante notare che il 33% delle aziende rispondenti al questionario è fornitore di primo livello, in gergo Tier 1, e quindi porta i componenti in catena di montaggio, il 45% è Tier 2 mentre il 19% è Tier 3.
MADE IN ITALY O FILIALI ITALIANE - Lo studio rileva un aumento, rispetto alla precedente rilevazione, dell’appartenenza a un gruppo industriale da parte delle imprese intervistate, salito dal 29% al 33%; di queste, oltre la metà è riconducibile a un gruppo estero. L’essere la filiale italiana di un gruppo straniero sale all’’85% per chi produce “cose” complicate come interi sistemi o moduli e al 46% per gli specialisti.
La situazione fra i subfornitori (Tier 2 e 3, generalmente più piccoli), per esempio aziende che forniscono fusioni grezze, è invece molto diversa: la media delle aziende indipendenti supera il 90% ed è molto più alto il numero delle capogruppo italiane. È facile verificare queste cose: fra i componentisti Top 50 troviamo per esempio Continental Brakes Italy, Magna Powertrain Italia, ZF Automotive Italia, Mahle Componenti Motori Italia e Faurecia Emissions Control Technologies Italy. Anche le aziende italiane hanno però sussidiarie estere: Marelli, poi ceduta a Calsonic, aveva decine di filiali e stabilimenti esteri fondati quando era ancora Italiana. Anche la già citata Sapa, che ha oltre 30 brevetti grazie al suo metodo One-Shot, che produce pezzi complicati in un solo passaggio, ha stabilimenti in tutta Europa, uno in Marocco e uno in Cina.
I COMPONENTISTI ITALIANI E L’AUTO ELETTRICA - Parlavamo dell’inventività e della flessibilità del sistema produttivo italiano, fatto di piccole aziende: uno studio di Motus-e e del CAMI (Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’Foscari di Venezia) ha infatti rilevato che i componentisti italiani con meno di 10 dipendenti sono il 20,5%, il 40,5% ha fra 10 e 49 addetti, il 29% ne ha fra 50 e 249 e solo il 10% ha una forza lavoro pari o superiore a 250 unità. Si dice che le imprese piccole sono meno forti economicamente ma offrano una maggiore adattabilità ai cambiamenti: quale migliore occasione per verificarlo della transizione elettrica?
Motus-e e il CAMI hanno studiato la questione, suddividendo gli occupati in alto rischio (sono 14.000 e producono soltanto componenti per auto con motori a scoppio, ICE) e quelli a rischio nullo: sono 215.000 e non producono componenti per gli ICE. I restanti 43.000 sono considerati a rischio trascurabile se almeno un componente prodotto è per i le auto elettriche (BEV) mentre il rischio è medio se più del 50% di loro produce solo per gli ICE ed è basso se meno della metà è dedicato solo agli ICE. Lo studio mette in risalto le grandi potenzialità economiche e occupazionali della produzione delle batterie per i BEV ed evidenzia i dati di una stima del Boston Consulting Group, basata su dati di Markit/S&P.
I dati al 2030 sono abbastanza confortanti: a fronte di cali occupazionali consistenti per le aziende “ICE only” e per quelle esposte per più del 50% verso i motori a scoppio, quelle impegnate solo per i BEV vedranno un aumento occupazionale rilevante e in grado di compensare i cali, facendo aumentare l’occupazione di decine di migliaia di unità. Queste stime presuppongono vendite e produzione dei BEV superiori al 50% e sono quindi soggette a variazioni in base all’effettiva quota di mercato dei veicoli elettrici.
I componentisti italiani sembrano quindi abbastanza pronti alla transizione energetica ma occorre dare un’avvertenza: il beneficio occupazionale del cambiamento presuppone una formazione dedicata per molti dei lavoratori che oggi lavorano per gli ICE. D’altro canto lo studio non considera i nuovi posti creati per adeguare le infrastrutture di distribuzione e ricarica e quindi siamo autorizzati a ben sperare.