CIRCUITI E BUSINESS - “La Formula 1 ha bisogno di un po’ di pepe”. Bernie Ecclestone ha le idee chiare sul futuro del Circus, e quando parla di pepe, di spezie, di condimenti piccanti non intende solo più sorpassi, ma anche nuove tavole su cui imbandire il campionato. Nuovi mercati, nuovi circuiti. Che magari non piacciono ai puristi e ai piloti stessi, e che magari hanno caratteristiche contraddittorie – ipertecnologici e plastificati in Arabia, improvvisati, pericolosissimi e cittadini a Montecarlo e, domani, a Roma o New York – ma che sicuramente hanno una cosa in comune: il business, o la sua affannosa ricerca.
LA COREA È QUASI PRONTA - Nel 1999, quando la massima serie debuttò nell’Asia continentale, in Malesia (in Giappone aveva esordito nel’76), Sepang pareva una mosca bianca. Quest’anno un terzo abbondante dei GP - addirittura il 42 per cento se consideriamo Istanbul tutta europea - si corre nel continente giallo. Bahrain, Abu Dhabi, Cina, Singapore, addirittura Corea – dicasi: Corea. Con le incertezze e gli incidenti di percorso che sono inevitabilmente legati alla ricerca di novità: solo oggi ad esempio è arrivata la (temporanea?) conferma che quest’anno a Sud Jeolla in ottobre si correrà, dopo che nei giorni scorsi si erano intrecciate voci sulla possibile cancellazione del GP coreano, causa ritardo nei lavori. Ma al tempo stesso con la granitica convinzione che il motorsport ha bisogno di esplorare il nuovo grande mercato mondiale, che sta ad est (coinvolgendo come è già stato fatto con la Force India anche team asiatici), e di titillare gli assopiti entusiasmi delle platee europee e americane con qualche trucco ad effetto: una sgommata davanti al colosseo, un pit stop fra i grattacieli di Manhattan.
INDIA ARRIVIAMO - Dall’anno prossimo, prevedibilmente in ottobre, ci sarà un GP in India, a Nuova Delhi, organizzato dal Jaypee Group, un megagruppo industriale che – come del resto è già successo a Abu Dhabi e in Bahrain – ha intenzione di inserire l’evento sportivo all’interno di un grande investimento per un nuovo parco sportivo che comprenderà anche uno stadio per il cricket da 100 mila posti. I lavori sono iniziati nel 2009, con un budget previsto di 350 milioni, al netto, almeno a sentire Mark Hughes, ex direttore operativo del GP del Bahrain, ora vice presidente di JPSK, una collegata del Jaypee Group, di aiuti governativi. E chi ha disegnato il circuito? Ovviamente Hermann Tilke, lo stesso che ha progettato i tracciati di Bahrain, Istanbul, Shanghai, Malesia, Valencia, Abu Dhabi e Corea.
Nel 2012 dovrebbero aggiungersi i GP di Russia – a Mosca o a Sochi – nel 2013 toccherà a Roma e a New York, che prenderanno il posto di gare magari più tradizionali, ma più deboli in prospettiva sul piano economico. “Perderemo qualche gara”, ha già fatto sapere il Supremo. “Ma ci sono GP che possiamo lasciare senza troppi problemi. Sono già in contatto con i diversi Paesi per vedere cosa ne potrà venire fuori”.
UN DNA DA NOMADI - Può sembrare cinismo. Anzi, lo è. Attenzione, però. La Formula 1 ha il nomadismo scritto nel suo Dna. Da quando è nata, sessant’anni fa, ha cambiato moltissimi tracciati e Paesi, si è allargata e contratta, adattandosi al mutare delle esigenze e delle correnti della geo-economia. Delle sette originarie location siamo arrivati alle 19 di oggi, alle 21 o più di domani, e nessun circuito può vantarsi di aver ospitato ininterrottamente la Formula 1 dal 1950 a oggi: Montecarlo saltò le edizioni dal 1951 al 1954, Monza quella del 1980 (foto in alto), il GP d’Inghilterra non si è sempre corso a Silverstone. Certo Spa ha un fascino infinitamente superiore a quello di Yas Marina o di Sakhir, e i circuiti di domani rischiano come si è detto di diventare piste con “troppo asfalto” e pochi tratti tecnici capaci di scremare il talento vero da quello pagato dai bonifici bancari. Altri potranno chiedersi che senso ha preoccuparsi tanto della sicurezza piazzando via di fuga infinite nei deserti mediorientali, e contemporaneamente prevedere gare fra le avenues di New York, di fianco all’Arbat o all’Eur. Ma questo è storicamente il destino del Circus, che si chiama così anche perché è abituato a smontare e rimontare il suo costoso tendone dove il pubblico, e i dollaroni, chiamano. Ieri nella vecchia Europa, a Indianapolis, a Kyalami o Interlagos, al Fuji o a Sepang. E domani chissà, magari in fondo all’Oceano!

