DANNI COLLATERALI - Prima la pandemia di Coronavirus, poi la carenza globale dei semiconduttori. Nel pieno dell’accelerazione verso la transizione ecologica, in uno dei momenti storici di per sé più delicati e complessi della sua storia, l’industria dell’auto continua ad arrancare sotto i colpi di una crisi che ora si allarga a un altro settore. Come rivela un articolo del quotidiano Il Gionale, si tratta del comparto dei cablaggi, il “fascio di cavi” di collegamento contenuto all’interno dei veicoli, un pezzo della filiera che coinvolge in presa diretta anche l’Italia. Il conflitto tra Russia e Ucraina, che ha spinto la maggior parte dei costruttori europei a intervenire con un embargo commerciale di fatto nei confronti di Mosca (qui una prima mappa del boicottaggio), sta mettendo a forte rischio le forniture italiane dei collegamenti elettrici destinate alla Germania, per un valore di 4,2 miliardi di euro, il 21% della produzione totale italiana di componenti per auto.
SENZA CABLAGGI LE LINEE SI FERMANO – Secondo quanto riporta l’articolo del quotidiano Il Giornale, insieme al Marocco, infatti, l’Ucraina è tra i maggiori produttori mondiali di cablaggi, e in una filiera corta e senza scorte come quella dell’auto lo stop della produzione automobilistica può verificarsi da un giorno all’altro. Scenario che si è già concretizzato negli stabilimenti tedeschi di Volkswagen, Porsche, Audi e BMW, “con pesanti ricadute sulle fabbriche di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia”, spiega in un’intervista a Il Giornale Pierangelo Decisi, presidente della Sigit, multinazionale che si occupa di interni per auto, e vicepresidente del Gruppo Componenti dell’Anfia. La crisi dei cablaggi avrà un impatto minore sui gruppi Stellantis e Renault, che per queste forniture fanno riferimento ai poli nordafricano e serbo, e sulla Mercedes, che si rivolge ai paesi dell’ex Jugoslavia, osserva Decisi. Che però avverte: “Il dato di 4,2 miliardi delle forniture per i big tedeschi si riferisce al 2021, ma ora la ‘tempesta perfetta’ si è trasformata in ‘perfettissima’”.
IL PROBLEMA DELLA CASSA INTEGRAZIONE - Proprio la Sigit è una delle imprese italiane che si trova a dover fare i conti con le pesanti conseguenze delle interruzioni della produzione e dei problemi delle catene di approvvigionamento. Il 40% della manodopera polacca dell’azienda è di origine ucraina, e molti giovani operai hanno lasciato il lavoro per tornare in patria a combattere. Un danno che, sommato alle difficoltà indotte dalla crisi tra Russia e Ucraina negli altri stabilimenti dell’Europa orientale, è quantificabile in una decina di milioni di euro. La situazione, inoltre, è resa ancor più grave dal fatto che, spiega Decisi, nei paesi est-europei “non esiste la cassa integrazione” e quindi “siamo chiamati a sostenere le famiglie” dei lavoratori. Un ammortizzatore sociale che rischia di esaurirsi molto in fretta, con un pesantissimo impatto sui conti dell’azienda. Di qui la proposta dell’imprenditore svizzero-torinese al premier Mario Draghi di chiedere alla Commissione Ue l’istituzione di una sorta di “cassa integrazione generale”, da attivare in casi di estrema difficoltà. Sulla scia, insomma, di quanto è stato fatto dopo le chiusure per la pandemia.
LE PREVISIONI NON SONO CONFORTANTI - Secondo Decisi “bisogna garantire subito fondi alle aziende per far fronte ai bisogni dei dipendenti. Ma applicare gli ammortizzatori solo per gli impatti in Italia e non nei Paesi colpiti dalla guerra creerà un disastro - avverte il presidente della Sigit -: loro affonderanno e noi a chi venderemo?”. A questa riflessione, osservando gli sviluppi degli avvenimenti in Ucraina e nei paesi limitrofi, si aggiunge quella sulle delocalizzazioni produttive nell’Est Europa. Per Decisi, dato il momento di forte incertezza e stabilità, i costruttori di automobili devono “pensare al cosiddetto Near regional reshoring”. Di cosa si tratta? In poche parole, di farsi trovare pronti con un piano B, prevedendo con maggior precisione "le interruzioni dei flussi di approvvigionamento, che possono derivare non solo da eventi geopolitici, ma anche per i cambiamenti climatici e le possibili pandemie che ancora non sono finite”.